di Graziano Stanziani
C’è un modo di dire in italiano che conosciamo tutti e che usiamo spesso, forse anche senza avvedercene: è “mettersi nei panni degli altri”.
È un’espressione che ritroviamo anche in inglese, nella variante “mettersi nelle scarpe degli altri”, a conferma del fatto che gli italiani sono più attenti al guardaroba mentre gli inglesi a dove mettono i piedi.
Boutade a parte, mettersi nei panni degli altri è un’abitudine che nel caso del counselor filosofico diventa un vero e proprio strumento metodologico, senza il quale diventa pressoché impossibile comprendere l’altro e quindi procedere nella disamina del problema portato e di conseguenza affrontarlo adeguatamente.
Ma dovrebbe trattarsi, più che di una capacità specifica di una figura professionale, di un’attitudine che dovrebbe permeare il quotidiano di tutti noi. Perché mettersi nei panni (o nelle scarpe)
degli altri ci fa capire molte cose e renderebbe tutto più facile.
Ma non è facile, perché presuppone una cosa che sembrerebbe scontata ma non lo è: spogliarsi. Infatti prima di provare a entrare in un paio di pantaloni di un altro dobbiamo toglierci i nostri, dobbiamo cioè spogliarci della nostra visione del mondo, che è avvinghiata alla nostra pelle come patelle sullo scoglio, e fare finta che non ci sia mai appartenuta.
Ma attenzione: “la nostra visione del mondo” (o weltanschauung, se vogliamo darci un tono) non vuol dire semplicemente come vediamo il mondo, ma include tutte le nostre convinzioni più radicate, le nostre credenze più intime, i nostri giudizi e soprattutto
pregiudizi, che agiscono come i bias nelle scienze, cioè possono farci prendere lucciole per lanterne (per restare nell’ambito dei modi di dire) quando dobbiamo comprendere le ragioni dell’altro.
Quindi, mettersi nei panni degli altri vuol dire liberarsi dei propri pregiudizi, o almeno fare con loro come Ulisse fece con le sirene: tapparsi le orecchie e ignorarli. A questo punto, spogli come mamma ci ha fatto, ci sembra già di aver fatto un lavorone, invece siamo solo all’inizio. Perché adesso viene il bello: dobbiamo vestirci degli abiti altrui, e può essere un’esperienza illuminante nella stessa misura in cui può essere sgradevole.
Illuminante perché scopriamo la liceità delle altrui emozioni e idee, che nei nostri vecchi panni ci sembravano inammissibili, e vediamo il mondo da un’angolazione inaspettata che ci apre prospettive nuove; ma possiamo anche scoprire che certe emozioni e idee, ancorché disdicevoli o esecrande, hanno piena cittadinanza e dobbiamo prenderle e rispettarle per quello che sono. Vanno sempre trattate come tali, perché un paio di pantaloni o una camicia sono pur sempre un paio di pantaloni e una camicia: può non piacerci il colore, il modello, la forma, ma sono abiti che qualcuno indossa da tutta la vita e che hanno forgiato la sua identità e configurato la sua esistenza; possiamo sentirci a disagio, ma per qualcuno rappresentano il proprio insindacabile modo di essere, uno stile che non potrà mai essere rinnegato se non a costo di rinnegare sé stessi.
Capiamo allora non solo che non è sempre semplice mettersi nei panni degli altri, ma anche quanta protervia avevamo nei confronti delle emozioni e delle idee di una persona prima di indossarne i panni. È uno sforzo che racchiude umiltà, attenzione, sensibilità, immaginazione, dedizione, e nonostante tutta la nostra buona volontà non riusciremo mai a esperire al cento per cento le sensazioni, le ragioni e gli stati d’animo di chi ci ha prestato i vestiti. Perché per quanto ci siamo spogliati, rimaniamo noi col nostro sostrato esistenziale contrapposto a quello dell’altra persona, che avrà sempre un bagaglio diverso dal nostro. Quindi per entrare nel suo mondo avremo sempre bisogno del suo aiuto, affinché ci indirizzi nella comprensione più profonda di sé e del suo mondo. Passo passo, indumento dopo indumento, saremo
vestiti alla sua maniera, e pur essendo sempre noi con i vestiti di un altro l’avremo compreso un po’ di più.
Pur consapevoli di quanto sia difficile mettersi nei panni degli altri, sarebbe ciononostante bello e fruttuoso se ciascuno di noi, anche se non è un counselor filosofico, provasse quotidianamente a mettere in pratica questo esercizio: sul lavoro, in famiglia, nelle relazioni di coppia, quanti benefici avremmo se ciascuno cercasse anche solo per un minuto di mettersi nei panni degli altri! Dirò di più, anzi di meno: a volte, visto che si tratta di una pratica che richiede tempo, energie e soprattutto una robusta motivazione,
non serve nemmeno arrivare a tanto.
Sarebbe sufficiente evitare di dispensare giudizi e opinioni su azioni, scelte e comportamenti altrui: prendendola alla lontana, è un’attitudine che in filosofia si chiama “epochè” (ἐποχή), di chiara eredità husserliana (cioè di Edmund Husserl, quello della fenomenologia), e vuol dire “sospendere il giudizio”. Ergo: quando non si ha tempo e voglia di spogliarsi e vestirsi si tace. E sappiamo quanto il silenzio a volte sia oro. Ma questa è un’altra storia che magari affronteremo un’altra volta.